29 marzo
Messa In Cena Domini

Parola di Dio

Es 12,1-8.11-14: Prescrizioni per la cena pasquale
Dal Sal 115: R. Il tuo calice, Signore, è dono di salvezza
1Cor 11,23-26: Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore
Gv 13,1-15: Li amò sino alla fine

 

Commento

La messa In Cena Domini va considerata come il prologo dei tre giorni santi. Come nei Vangeli i racconti dell’ultima cena – istituzione dell’eucaristia nei Sinottici e lavanda dei piedi in Giovanni – hanno la funzione di essere profezia e annuncio della morte di Gesù in croce, così la celebrazione del Giovedì santo diventa chiave interpretativa degli eventi di passione, morte e risurrezione che saranno celebrati nei tre giorni pasquali.

La liturgia della Parola di questa celebrazione è caratterizzata dalla proclamazione del racconto della lavanda dei piedi, secondo il Vangelo di Giovanni (Gv 13,1-15), e dal racconto dell’istituzione dell’eucaristia che Paolo riporta nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 11,23-26). Entrambi i testi hanno la funzione di introdurci nel mistero pasquale rivelando il senso più vero dei fatti ambigui e contraddittori che accompagneranno la passione, morte e risurrezione di Gesù. Il brano della prima lettura (Es 12,1-8.11-14) crea un collegamento tra l’inizio del Triduo pasquale e la Pasqua ebraica. In questo modo gli eventi della morte e risurrezione di Gesù ricevono un’ulteriore interpretazione e possono essere letti in continuità con l’agire di Dio che nella storia si manifesta come salvezza e liberazione.

La lavanda dei piedi ha la funzione di introdurre nei racconti della passione di Gesù. Che cosa vuole dire ai suoi discepoli Gesù compiendo questo gesto così sorprendente? Ci sono state molte proposte di interpretazione del gesto di Gesù, ma in realtà, ciò che Gesù compie, senza peraltro escludere le altre sfumature che il gesto della lavanda può avere, ha un senso principalmente pasquale e rivela la logica della sua vita e quella che egli indica ai suoi discepoli.

Questa decifrazione del testo la troviamo leggendo con attenzione il dialogo tra Gesù e Pietro. Quando Gesù, che sta lavando i piedi dei discepoli, arriva a Pietro, il primo dei Dodici ha una reazione che ci sorprende. Egli afferma: «Tu non mi laverai i piedi in eterno» (Gv 13,8). C’è una ferma chiusura di Pietro nei confronti del gesto incomprensibile del maestro. Gesù allora ribatte: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Gv 13,8). Solo dopo queste parole di Gesù Pietro si lascia lavare i piedi e afferma: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo» (Gv 13,9). A questo punto troviamo una frase di Gesù decisiva per la comprensione del testo: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti!» (Gv 13,10).

Pietro, come quando Gesù annunciò per la prima volta la sua passione nei Sinottici, fa fatica a comprendere fino in fondo la logica di Gesù. Nel suo dialogo con il maestro durante il gesto della lavanda dei piedi si rivela il senso più vero e profondo della vita di Gesù, che i suoi discepoli devono saper accogliere per avere parte con lui. I discepoli, che hanno seguito il maestro, hanno visto le sue opere e ascoltato il suo insegnamento, devono fare un ultimo passo per comprendere veramente chi è Gesù per loro e il senso del suo ministero. Il passo che manca loro è quello di accettare Gesù fino in fondo, fino al dono della sua vita negli eventi della passione. Per questo Gesù a Pietro dice: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7). Infatti solo dopo gli eventi della passione i discepoli potranno veramente comprendere il senso della lavanda dei piedi che Gesù compie nei loro confronti.

Il racconto dell’istituzione dell’eucaristia viene riportato nella versione di Paolo nella seconda lettura. Questo racconto ci aiuta a fare un passo ulteriore, in continuità con ciò che abbiamo già affermato in riferimento al brano di Giovanni. Il racconto della cena nella Prima Lettera ai Corinzi ha un tono particolare rispetto alle versioni sinottiche. Paolo tramanda il racconto della cena, che lui stesso ha ricevuto, come antidoto contro le divisioni della comunità di Corinto. In questo brano quindi emerge in modo molto evidente il rapporto tra eucaristia e chiesa/comunità. Non abbiamo quindi unicamente la cronaca di ciò che Gesù fece nell’ultima cena con i suoi discepoli, ma anche il senso della ripetizione dei suoi gesti e delle sue parole per i credenti di ogni generazione. Ripetere i gesti e le parole di Gesù celebrando l’eucaristia, per i suoi discepoli significa annunciare la sua morte e quindi renderla feconda di vita e di comunione per la vita della Chiesa (1Cor 11,26).

I tre testi che compongono la liturgia della Parola del Giovedì santo sono tutti caratterizzati da un comando di ripetizione. Nel brano dell’Esodo Mosè afferma: «Questo giorno sarà per voi un memoriale… lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14). Nel brano paolino troviamo per due volte il comando del Signore «Fate questo in memoria di me!» (1Cor 11,24.25). Infine, dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù afferma: «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15). Grazie all’obbedienza al comando di ripetizione, i credenti possono sperimentare oggi nella loro vita quella salvezza e liberazione di Dio che nella Pasqua si è manifestata. Per i discepoli questa immagine significa che per essere veramente seguaci di Gesù dovranno fare un ultimo passo, quello di lasciarsi lavare i piedi, cioè di accettare Gesù nei giorni della sua passione. La lavanda dei piedi ci annuncia che per essere veramente discepoli di Gesù anche noi dobbiamo accettare che egli ci lavi i piedi, cioè accoglierlo nel momento in cui per noi dona la vita nella morte di croce.

 

1 aprile
Domenica di Pasqua
«Risurrezione del Signore»

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA

Parola di Dio

Gen 1,1–2,2 (forma breve 1,1.26-31) Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona
Sal 103 Rit. Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra o Sal 32 Rit. Dell’amore del Signore è piena la terra
Gen 22,1-18 (forma breve 22.1-2.9a.10-13.15-18) Il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede
Sal 15 Rit. Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio
Es 14,15–15,1 Gli Israeliti camminarono sull’asciutto in mezzo al mare
Es 15,1b-6.17-18 Cantiamo al Signore: stupenda è la sua vittoria
Is 54,5-14 Con affetto perenne il Signore, tuo redentore, ha avuto pietà di te
Sal 29 Rit. Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato
Is 55,1-11 Venite a me e vivrete; stabilirò per voi un’alleanza eterna
Is 12,2.4-6 Rit. Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza
Bar 3,9-15.32–4,4 Cammina allo splendore della luce del Signore
Sal 18 Rit. Signore, tu hai parole di vita eterna
Ez 36,16-17a.18-28 Vi aspergerò con acqua pura e vi darò un cuore nuovo
Sal 41 Rit. Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio o Is 12,2-6 Rit. Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza o Sal 50 Rit. Crea in me, o Dio, un cuore puro
Rm 6,3-11 Cristo risorto dai morti non muore più
Sal 117 Rit. Alleluia, alleluia, alleluia
Mc 16,1-7 Gesù Nazareno, il crocifisso, è risorto

 

Commento

La liturgia della Parola della Veglia pasquale ha un carattere di esemplarità. Dalle letture della notte di Pasqua ogni altra proclamazione della Parola nelle celebrazioni liturgiche trae senso e ispirazione. Nella Veglia, accanto all’ambone, luogo della proclamazione della Parola, splende il cero pasquale, alla luce del quale la Chiesa leggerà le Scritture sante in questa celebrazione, ma anche per tutto il tempo di Pasqua fino al compimento della Pentecoste. Così alla luce di Cristo le Scritture vengono lette e interpretate, a partire dalla creazione fino all’annuncio del dono di un cuore nuovo da parte di Ezechiele profeta e alla narrazione della scoperta della tomba vuota nel brano evangelico. In questo cammino si inserisce anche l’oggi della Chiesa e dell’umanità che vede realizzarsi nel presente della celebrazione ciò di cui fa memoria e ciò che attende.

Nella liturgia della Parola della Veglia troviamo tutte le sfumature e le forme in cui la Parola di Dio si è comunicata e si comunica all’umanità: nella Torà (Genesi, Esodo), nei Profeti (Isaia, Baruc, Ezechiele), negli Scritti (Salmi), nel Nuovo Testamento (Lettera ai Romani e Vangelo).

I due passi del Nuovo Testamento costituiscono il punto di arrivo e il culmine della liturgia della Parola della Veglia. L’annuncio della risurrezione del Signore secondo Marco (Mc 16,1-7) presenta l’evento della tomba vuota nella maniera sconvolgente propria del Secondo Evangelista. L’omissione del v. 8 purtroppo toglie al brano evangelico quella drammaticità e quella sospensione che caratterizza il racconto marciano: «[Le donne] uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite» (Mc 16,8). Quel Gesù che ha sempre camminato avanti ai suoi discepoli, mostrandosi come un Signore inafferrabile che ci conduce sempre oltre, ora «precede» ancora una volta i suoi in Galilea per iniziare con loro un nuovo cammino.

Se il testo evangelico annuncia l’evento della risurrezione del Signore, il brano della Lettera ai Romani (Rm 6,3-11), facendo riferimento al Battesimo, ci annuncia che cosa c’entra con la vita del credente quell’evento. Anche noi siamo «con-sepolti» con Cristo, per essere con lui risuscitati. Paolo ci invita a leggere la Pasqua di Gesù come un fatto che ci riguarda.

Ripercorrendo la liturgia della Parola a ritroso troviamo quattro letture profetiche: una di Ezechiele, una di Baruc e due di Isaia. Il passo di Ezechiele (Ez 36,16-28), culmine di questa seconda serie di letture, si situa in un contesto di rinnovamento che raggiunge l’uomo fin nel suo intimo. Il prologo storico (vv. 17-19) ci parla di una storia di peccato e di ribellione. Di fronte a questa storia Dio non agisce mosso dal peccato, ma per santificare il suo nome. Siamo davanti al liberante annuncio della assoluta gratuità dell’agire di Dio (cf. Rm 5,8). Questo testo di Ezechiele diviene manifestazione del senso della Pasqua come azione gratuita di Dio, che sempre si rinnova nella storia nonostante il peccato e l’infedeltà degli uomini.

Poi abbiamo una terza parte della liturgia della Parola, che potremmo intitolare: le notti di Dio (cf. il Poema delle quattro notti nel Targum di Es 12). Qui troviamo, andando sempre a ritroso, il passaggio del Mar Rosso (Es 14,15-15,1), la prova di Abramo (Gen 22,1-18), la creazione (Gen 1,1-2,2). Si va dalla liberazione alla creazione.

Innanzitutto troviamo l’annuncio di un Dio che libera e salva (III lettura). L’evento del passaggio del mare avviene perché è opera di Dio: questo è uno dei messaggi principali del testo. Non è Israele che combatte e vince il suo avversario, ma qui il popolo è spettatore di un Dio che combatte per lui.

Nel brano della prova di Abramo (II lettura) troviamo il tema della promessa di Dio, che riguarda non solo la vita del Patriarca, ma anche dell’intero popolo di Dio. Siamo al termine del cammino di Abramo, quando al Patriarca viene chiesta la vita del figlio «amato». I Padri della Chiesa hanno spesso riletto questo testo alla luce della morte di Gesù.

Infine abbiamo il racconto della creazione (I lettura). A questo punto è chiaro che non possiamo leggere questo testo nella Veglia pasquale senza pensare alla nuova creazione che è stata inaugurata dalla pasqua di Cristo. Non dimentichiamo che il primo giorno dopo il sabato è anche il giorno in cui Dio ha dato inizio alla creazione, separando la luce dalle tenebre. Nella creazione è il sogno di Dio, la nuova creazione in Cristo, che viene annunciata all’assemblea liturgica radunata per la Veglia di Pasqua.

Nel canto dell’Exultet, che apre la celebrazione della Veglia, si ricorda un fatto singolare della fede cristiana. Questa notte è la sola che ha conosciuto i tempi e l’ora in cui Cristo è risorto. Nessuno dei Vangeli, infatti, ci narra la risurrezione di Gesù. Il centro della nostra fede non è stato descritto da nessuno: solo questa notte ne custodisce per noi il mistero. In essa ognuno può diventare testimone oculare di ciò che occhio non vide né orecchio udì (1Cor 2,9).

 

DOMENICA DI PASQUA
RISURREZIONE DEL SIGNORE

 

Parola di Dio

At 10,34a.37-43 Noi abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti
Sal 117 Rit. Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo oppure Alleluia, alleluia, alleluia
Col 3,1-4 Cercate le cose di lassù, dove è Cristo oppure 1Cor 5,6b-8 Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova
Gv 20,1-9 Egli doveva risuscitare dai morti (nella Messa del giorno)
Lc 24,13-35 Resta con noi perché si fa sera (nella Messa vespertina)

 

Commento

Nella celebrazione del giorno di Pasqua troviamo come brano evangelico la scoperta del sepolcro vuoto il primo giorno dopo il sabato nel Vangelo di Giovanni (Gv 20,1-9). Gli altri testi della liturgia della Parola di questo giorno sottolineano alcuni aspetti del mistero che si celebra. Il brano degli Atti degli Apostoli (At 10,34a.37-43) riporta il quinto discorso di Pietro nel quale l’apostolo ripercorre la vita di Gesù che passò facendo del bene e risanando. Pietro lega gli eventi pasquali all’intera esistenza di Gesù a partire dal battesimo predicato da Giovanni. I discepoli che hanno vissuto con Gesù non sono solo testimoni della sua risurrezione, ma della sua intera esistenza. In questo modo viene sottolineato come tutta la vita di Gesù è stata segnata dalla logica pasquale del dono di sé. Nella Lettera ai Colossesi (1Cor 5,6-8) si proclama che la risurrezione del Signore è ormai un fatto che riguarda la vita di tutti i credenti, che sono «risorti con Cristo» (Col 3,1). Questa realtà illumina di luce nuova la loro esistenza e deve segnare concretamente la loro vita. In fondo nella prima e nella seconda lettura si proclama che come la realtà della Pasqua ha segnato l’intera esistenza terrena di Gesù, così deve anche trasformare ed illuminare quella dei cristiani.

Non dobbiamo leggere il brano evangelico come una cronaca di ciò che avvenne il giorno della risurrezione del Signore, bensì come un itinerario di fede verso l’incontro con lui che i discepoli di ogni tempo possono e devono vivere. Protagonisti di questo itinerario di fede sono Maria Maddalena, la prima testimone della tomba vuota, Pietro e il discepolo che Gesù amava.

Il primo tratto dell’itinerario di fede che il brano evangelico vuole farci compiere è affidato alla figura di Maria Maddalena. Essa si reca al sepolcro spinta dal legame che aveva con il Maestro defunto. È ancora buio e siamo nel primo giorno della settimana, il primo giorno della creazione. Per la prima volta troviamo nel testo il verbo vedere [blepo], che nel Vangelo di Giovanni appartiene al vocabolario della fede. Questa sguardo di Maria, avvolto dal buio esteriore ed interiore nel quale essa si trova, è un modo di guardare che sta ancora all’inizio del cammino di fede. Lo sguardo di Maria è ancora segnato da «una visione materiale, una visione che non comprende» (B. Maggioni). Maria non entra nemmeno nel sepolcro, ma va a dare l’annuncio ai discepoli. La sua incomprensione emerge dalle parole che rivolge ai discepoli: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro» (Gv 20,2).

Alle parole di Maria, Pietro e il discepolo amato corrono alla tomba. I due discepoli corrono al sepolcro e uno dei due, il discepolo amato, corre più forte di Pietro e raggiunge per primo la tomba. Egli tuttavia non entra, ma si china e vede. La sua esperienza è simile a quella di Maria Maddalena: il testo greco usa lo stesso verbo. Tuttavia egli vede qualcosa di più di Maria: si avvicina alla tomba vuota, si china e vede le tele che ricoprivano il cadavere del Signore.

Poi alla tomba giunge anche Pietro. Egli, a differenza dell’altro discepolo, entra nella tomba e vede [theoreo] le bende e il sudario. In questo caso non si usa più lo stesso verbo che abbiamo trovato a proposito di Maria e del discepolo amato. Si tratta di un verbo che indica qualcosa di diverso rispetto a quello usato nei casi precedenti. Non siamo ancora alla meta del cammino, «non è ancora lo sguardo della fede, ma è pur sempre uno sguardo attento, che suscita il problema e rende perplessi» (B. Maggioni).

Infine, entra anche l’altro discepolo. Egli entra, davanti ai suoi occhi trova le stesse cose che vide Pietro, ma di lui si dice che vide (orao) e credette, oppure, potremmo anche dire, «vedendo credette». Qui si usa un terzo verbo che indica la vista, il verbo greco orao. Questo verbo indica «il vedere penetrante di chi sa cogliere il significato profondo di ciò che materialmente appare» (B. Maggioni).

Usando questi verbi diversi per indicare l’unica esperienza del vedere è come se l’evangelista Giovanni volesse indicarci appunto un itinerario di fede. Ci sono personaggi differenti tra loro, che vedono in modo differente anche a seconda della loro vicinanza alla tomba vuota: solo quando entra nel sepolcro vuoto il discepolo che Gesù amava riesce ad avere lo sguardo della fede. Ciò che i discepoli fanno non è altro che l’esperienza di un grande vuoto, l’esperienza di una assenza. Vedono solo i segni dell’assente. Ma entrando nella profondità di quel vuoto e di quell’assenza, lo sguardo può divenire capace di vedere veramente il senso di ciò che è accaduto.

Ma non possiamo dimenticare un altro particolare decisivo: colui che arriva allo sguardo della fede non è, per ora, né Maria Maddalena – di lei il Vangelo di Giovanni parlerà più avanti – né Pietro, bensì quel discepolo senza nome che viene chiamato il discepolo che Gesù amava. Non bastano i segni dell’assenza, occorrono gli occhi dell’amato per arrivare allo sguardo della fede.

L’assemblea liturgica nel giorno di Pasqua è invitata a compiere lo stesso itinerario di fede del discepolo amato per giungere ad uno sguardo che sa penetrare il mistero dell’assenza e del vuoto per arrivare ad una visione diversa della realtà e alla fede. E’ in una conversione dello sguardo alla luce della risurrezione che la liturgia pasquale ci invita ad entrare sulle orme di Maria, Pietro e quel discepolo che Gesù amava.

Sabato Santo

Parola di Dio

Gen 1,1-2,2 Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona
Sal 103 Rit. Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra o Sal 32 Rit. Dell’amore del Signore è piena la terra
Gen 22,1-18 Il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede
Sal 15 Rit. Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio
Es 14,15-15, 1 Gli Israeliti camminarono sull’asciutto in mezzo al mare
Es 15,1b-6.17-18 Cantiamo al Signore: stupenda è la sua vittoria
Is 54,5-14 Con affetto perenne il Signore, tuo redentore, ha avuto pietà di te
Sal 29 Rit. Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato
Is 55,1-11 Venite a me e vivrete; stabilirò per voi un’alleanza eterna
Is 12,2.4-6 Rit. Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza
Bar 3,9-15. 32-4, 4 Cammina allo splendore della luce del Signore
Sal 18 Rit. Signore, tu hai parole di vita eterna
Ez 36,16-17a. 18-28 Vi aspergerò con acqua pura e vi darò un cuore nuovo
Sal 41 Rit. Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio o Is 12,2-6 Rit. Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza o Sal 50 Rit. Crea in me, o Dio, un cuore puro
Rm 6,3-11 Cristo risorto dai morti non muore più
Sal 117 Rit. Alleluia, alleluia, alleluia
Mc 16,1-7 Gesù Nazareno, il crocifisso, è risorto

 

Commenti

La liturgia della Parola della Veglia pasquale ha un carattere di esemplarità. Dalle letture della notte di Pasqua ogni altra proclamazione della Parola nelle celebrazioni liturgiche trae senso e ispirazione. Nella Veglia, accanto all’ambone, luogo della proclamazione della Parola, splende il cero pasquale, alla luce del quale la Chiesa leggerà le Scritture sante in questa celebrazione, ma anche per tutto il tempo di Pasqua fino al compimento della Pentecoste. Così alla luce di Cristo le Scritture vengono lette e interpretate, a partire dalla creazione fino all’annuncio del dono di un cuore nuovo da parte di Ezechiele profeta ed alla narrazione della scoperta della tomba vuota nel brano evangelico. In questo cammino si inserisce anche l’oggi della Chiesa e dell’umanità che vede realizzarsi nel presente della celebrazione ciò di cui fa memoria e ciò che attende.

 

Nella liturgia della Parola della Veglia troviamo tutte le sfumature e le forme in cui la Parola di Dio si è comunicata e si comunica all’umanità: nella Torà (Genesi, Esodo), nei Profeti (Isaia, Baruc, Ezechiele), negli Scritti (Salmi), nel Nuovo Testamento (Lettera ai Romani e Vangelo).

 

I due passi del Nuovo Testamento costituiscono il punto di arrivo e il culmine della liturgia della Parola della Veglia. L’annuncio della risurrezione del Signore secondo Marco (Mc 16,1-7) presenta l’evento della tomba vuota nella maniera sconvolgente propria del Secondo Evangelista. L’omissione del v. 8 purtroppo toglie al brano evangelico quella drammaticità e quella sospensione che caratterizza il racconto marciano: «[le donne] uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite» (Mc 16,8). Quel Gesù che ha sempre camminato avanti ai suoi discepoli, mostrandosi come un Signore inafferrabile che ci conduce sempre oltre, ora «precede» ancora una volta i suoi in Galilea per iniziare con loro un nuovo cammino.

Se il testo evangelico annuncia l’evento della risurrezione del Signore, il brano della Lettera ai Romani (Rm 6,3-11), facendo riferimento al Battesimo, ci annuncia che cosa c’entra con la vita del credente quell’evento. Anche noi siamo «con-sepolti» con Cristo, per essere con lui risuscitati. Paolo ci invita a leggere la Pasqua di Gesù come un fatto che ci riguarda.

 

Ripercorrendo la liturgia della Parola a ritroso troviamo quattro letture profetiche: una di Ezechiele, una di Baruc e due di Isaia. Il passo di Ezechiele (Ez 36,16-28), culmine di questa seconda serie di letture, si situa in un contesto di rinnovamento che raggiunge l’uomo fin nel suo intimo. Il prologo storico (vv. 17-19) ci parla di una storia di peccato e di ribellione. Di fronte a questa storia Dio non agisce mosso dal peccato, ma per santificare il suo nome. Siamo davanti al liberante annuncio della assoluta gratuità dell’agire di Dio (cf. Rm 5,8). Questo testo di Ezechiele diviene manifestazione del senso della Pasqua come azione gratuita di Dio, che sempre si rinnova nella storia nonostante il peccato e l’infedeltà degli uomini.

 

Poi abbiamo una terza parte della liturgia della Parola, che potremmo intitolare: le notti di Dio (cf. il Poema delle quattro notti nel Targum di Es 12). Qui troviamo, andando sempre a ritroso, il passaggio del Mar Rosso (Es 14,15-15,1), la prova di Abramo (Gen 22,1-18), la creazione (Gen 1,1-2,2). Si va dalla liberazione alla creazione.

Innanzitutto troviamo l’annuncio di un Dio che libera e salva (III lettura). L’evento del passaggio del mare avviene perché è opera di Dio: questo è uno dei messaggi principali del testo. Non è Israele che combatte e vince il suo avversario, ma qui il popolo è spettatore di un Dio che combatte per lui.

Nel brano della prova di Abramo (II lettura) troviamo il tema della promessa di Dio, che riguarda non solo la vita del Patriarca, ma anche dell’intero popolo di Dio. Siamo al termine del cammino di Abramo, quando al Patriarca viene chiesta la vita del figlio «amato». I padri della Chiesa hanno spesso riletto questo testo alla luce della morte di Gesù.

Infine abbiamo il racconto della creazione (I lettura). A questo punto è chiaro che non possiamo leggere questo testo nella Veglia pasquale senza pensare alla nuova creazione che è stata inaugurata dalla pasqua di Cristo. Non dimentichiamo che il primo giorno dopo il sabato è anche il giorno in cui Dio ha dato inizio alla creazione, separando la luce dalle tenebre. Nella creazione è il sogno di Dio, la nuova creazione in Cristo, che viene annunciata all’assemblea liturgica radunata per la Veglia di Pasqua.

 

Nel canto dell’Exultet, che apre la celebrazione della Veglia, si ricorda un fatto singolare della fede cristiana. Questa notte è la sola che ha conosciuto i tempi e l’ora in cui Cristo è risorto. Nessuno dei Vangeli, infatti, ci narra la risurrezione di Gesù. Il centro della nostra fede non è stato descritto da nessuno: solo questa notte ne custodisce per noi il mistero. In essa ognuno può diventare testimone oculare di ciò che occhio non vide né orecchi udì (1Cor 2,9).

30 marzo
Passione del Signore

Parola di Dio

Is 52,13-53,12: Egli è stato trafitto per le nostre colpe
Dal Salmo 30: R. Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito
Eb 4,14-16; 5,7-9: Cristo imparò l’obbedienza e divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono
Gv 18,1-19,42: Passione del Signore

 

Commento

Al centro della liturgia del Venerdì santo sta la proclamazione della Passione del Signore secondo l’evangelista Giovanni. La passione secondo Giovanni (Gv 18,1-19,42) presenta la morte di Gesù in croce come l’intronizzazione del re. Nel prefazio I della passione del Signore si prega: «Nella passione redentrice del tuo Figlio tu rinnovi l’universo e doni all’uomo il vero senso della tua gloria; nella potenza misteriosa della croce tu giudichi il mondo e fai risplendere il potere regale di Cristo crocifisso» (Messale Romano, p. 325).

In questa prospettiva gloriosa, la croce viene adorata come il «trono della grazia». Il brano della seconda lettura (Eb 4,14-16; 5,7-9), esorta: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,16).

Il IV Carme del Servo del Signore ci guida nel cogliere gli elementi di fondo dell’evento della passione e morte del Signore. Innanzitutto, dall’esperienza del protagonista emerge la prima caratteristica, che ritroviamo in Gesù, quella della giustizia. È un uomo giusto al quale viene inflitta una condanna ingiusta (Is 53,8). È un primo tratto indispensabile per cogliere il senso della passione di Gesù. Egli è, come il Servo del Signore, un giusto che per la sua giustizia viene condannato e tolto di mezzo. La sua morte quindi non può essere in alcun modo spiritualizzata, non la si può semplicemente accettare come volontà di Dio, dal momento che è e rimane una ingiustizia. È la sorte del giusto nella storia dell’umanità! (Cf. Sap 2,12-14). La passione e morte di Gesù, come quella del Servo del Signore, è quindi innanzitutto una ingiustizia, mentre colui che subisce questa sorte si presenta come il Giusto.

Un secondo aspetto che possiamo sottolineare è il modo di affrontare la situazione ingiusta nella quale il Servo si viene a trovare in un mondo nel quale l’ingiustizia si impone con prepotenza. Il Servo del Signore, come Gesù davanti ai suoi accusatori, non risponde con gli stessi mezzi violenti. Egli è mite, come coloro che sono stati detti felici nelle beatitudini (Mt 5,5). Del Servo Isaia dice: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca» (Is 53,7). Il giusto ingiustamente condannato affida a Dio la sua difesa e non assume gli stessi mezzi dei suoi accusatori, ma anche nell’ingiustizia rimane giusto.

Un altro elemento importante che emerge nel modo in cui il Servo vive la situazione nella quale si trova, che è già emerso la Domenica delle Palme e il Giovedì santo, è la sua libertà. Sembrerebbe che in tutti i fatti che vengono narrati il Servo sia unicamente una vittima in balia dei suoi nemici. In realtà ciò che avviene è frutto di una sua libera scelta: «ha spogliato se stesso fino alla morte» (Is 53,12). Il Servo non affronta le vicende della sua vita con rassegnazione e passivamente, ma come protagonista che tiene in mano la sua esistenza e non se la lascia sottrarre da coloro che attentano alla sua vita. Questo aspetto emerge molto chiaramente nel racconto della passione. Basta pensare al dialogo con Pilato (Gv 18,28-38) o all’azione di affidare la Madre-Chiesa al discepolo amato (Gv 19,26).

Sempre sulla linea di cogliere la modalità del Servo del Signore di vivere la passione e la morte, possiamo vedere come il testo legga la sua vicenda in quanto dono di sé per la vita degli altri. È un’idea che ritorna con insistenza nel testo: «Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità» (Is 53, 5; cf. anche Is 53,10). Possiamo proiettare anche quest’aspetto sulla vicenda della passione di Gesù. Anche lui non si presenta come un eroe, che muore unicamente per coerenza con le proprie convinzioni. Se fosse così, gli stessi suoi discepoli non sarebbero altro che i difensori di una causa. Gesù vive sì la sua passione nella libertà, ma per amore dei suoi. Questo aspetto è già emerso nell’episodio della lavanda dei piedi, che si apre proprio con l’affermazione dell’amore di Gesù per i suoi discepoli e per l’umanità fino alla fine (cf. Gv 13,1). È significativo che del Servo si dica che il motivo per cui egli avrà una discendenza sta nel fatto che abbia offerto la sua vita. Anche per Gesù la morte che egli affronta per amore e nella libertà è fonte di vita. Pensiamo al sangue e all’acqua che escono dal costato di Gesù morto in croce: Giovanni stesso interpreta questi elementi come fonte di vita (cf. 1Gv 5,6). Inoltre, il quarto evangelista colloca il dono dello Spirito proprio nel momento in cui Gesù dona la sua vita in croce: «E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). Il fatto che Giovanni collochi il dono dello Spirito mentre Gesù dona la sua vita in croce, crea un legame tra dono di sé e discendenza, proprio come accade per il Servo del Signore. Nel Vangelo di Giovanni abbiamo già trovato questo annuncio nell’immagine del seme di grano che muore nei solchi della terra per portare frutto (cf. Gv 12,24).

All’inizio del carme si afferma che nell’esistenza del Servo assistiamo ad un fatto mai raccontato (Is 52,15). Nell’esistenza di Gesù e nella sua passione e morte possiamo contemplare questo fatto mai visto: sul volto sfigurato del Servo del Signore, il volto dell’uomo come Dio lo ha sognato e pensato. Per questo anche noi oggi possiamo accostarci con piena fiducia al trono della grazia (II lettura), «per ricevere misericordia e trovare grazia» (Eb 4,16). Oggi la passione del Signore continua nel suo corpo, perché con lui sepolti possiamo risorgere insieme a lui.

25 marzo
Domenica delle Palme e della Passione del Signore

Parola di Dio

Mc 11,1-10 Benedetto colui che viene nel nome del Signore
Is 50,4-7: Non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi, sapendo di non restare confuso
Sal 21: R. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Fil 2,6-11: Cristo umiliò se stesso, per questo Dio lo esaltò
Mc 14,1-15,47: La passione del Signore

 

Commento

La domenica delle Palme ci introduce nella Settimana Santa e nella celebrazione del mistero di passione, morte, sepoltura e risurrezione del Signore. Dal punto di vista delle letture bibliche, accostando la domenica delle Palme alla domenica di Risurrezione, abbiamo la proclamazione di tutto il racconto di passione, morte e risurrezione di Gesù secondo il vangelo dell’anno, nel caso del ciclo B il Vangelo secondo Marco.

Due sono i testi evangelici proclamati in questa celebrazione. All’inizio, nella Commemorazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, viene proclamato il racconto di questo episodio, secondo l’evangelista Marco (Mc 11,1-10). Il brano evangelico della liturgia della Parola è invece il racconto della Passione del Signore sempre secondo Marco (Mc 14,1-15,47). Come prima e seconda lettura il lezionario presenta un ciclo unico, proponendo ogni anno alcuni versetti dal Terzo canto del Servo del Signore (Is 50,4-7) e il cantico della Lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11). Entrambi i testi diventano chiave interpretativa molto ricca del racconto della Passione di Gesù nei testi evangelici.

 

I brani evangelici, sia il racconto dell’ingresso a Gerusalemme sia la Passione, tratti dal racconto di Marco, hanno in comune un aspetto decisivo, che ci aiuta ad entrare nel mistero pasquale e degli eventi che circondano la passione e morte del Signore. Ci mostrano Gesù come “padrone” degli aventi che stanno accadendo intorno a lui. Egli non è in balia né della sorte, né degli uomini, ma è signore della sua vita.

Nel racconto dell’ingresso a Gerusalemme, che viene narrato come ingresso messianico sulla base della profezia di Zaccaria (Zc 9,9), Gesù si mostra immediatamente come padrone di ciò che accade. Tutto avviene come egli dispone. In un racconto relativamente breve, l’aspetto della preparazione e delle disposizioni da parte di Gesù occupa uno spazio molto rilevante (Mc 11,1-6). Fin da questo episodio quindi ciò che accade a Gesù viene presentato non come frutto del caso e delle trame umane, ma come sua libera scelta. L’ingresso in Gerusalemme inoltre sottolinea il tipo di Messia che è Gesù. Già Pietro aveva dichiarato al centro del Vangelo di Marco «Tu sei il Cristo» (Mc 8,29), ma poi aveva anche dimostrato di non aver compreso il tipo di messianicità che Gesù incarna. Ora nell’ingresso a Gerusalemme egli si mostra come Messia umile e mite, secondo la profezia di Zaccaria: «Ecco, a te [Gerusalemme] viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc 9,9). Tuttavia solo ai piedi della croce sarà possibile comprendere fino in fondo l’identità di Gesù e la sua messianicità. Sarà un centurione pagano a comprenderlo, vedendolo morire «in quel modo»: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39).

Nel brano della Passione la signoria di Gesù sui fatti che segnano l’epilogo della sua esistenza terrena è ancora più forte. Come nel brano dell’ingresso in Gerusalemme, questo aspetto appare dal racconto della preparazione dell’ultima cena, dove tutto accade secondo quanto Gesù ordina. Egli è padrone degli eventi e sembra conoscere tutto e tutto determinare (cf. Mc 14,12-17). Lo stesso aspetto emerge dal modo di rapportarsi di Gesù con Giuda durante la cena (Mc 14,17-21).

Quello della signoria di Gesù sui fatti che accadono, sembra quindi molto rilevante, tanto che Marco, con ironia, lo presenta fin dagli esordi del racconto della Passione di Gesù. Infatti, se andiamo ai primi versetti, vediamo che la signoria di Gesù su tutto ciò che accade, viene affermata fin dall’inizio. Dopo aver situato cronologicamente i fatti – «Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi» – Marco annota che i capi dei sacerdoti e gli scribi dicevano: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta di popolo» (Mc 14,2). È una annotazione che sembra essere di passaggio e non avere grandi ripercussioni sul racconto. Invece essa è molto significativa. Infatti tutto accadrà proprio durante la festa. Gli uomini sembrano disporre tutto; tutto ciò che accade durante i racconti della Passione sembra essere il frutto della malvagità umana e delle trame dei potenti, ma in realtà è la storia di una vita donata. Emergerà chiaramente durante il racconto dell’ultima cena (Mc 14,22-25), quando Gesù prendendo tra le mani il pane il calice dirà: «è il mio corpo… è il mio sangue dell’alleanza che è versato per molti» (cf. Mc 14,22.24).

 

I brani della prima e della seconda lettura sono un’ulteriore guida alla comprensione del racconto della passione e morte di Gesù. Il testo del Canto del Servo del Signore guida alla comprensione della Passione come atto di «obbedienza» al Padre, nella certezza che Dio assiste il suo Servo. Il cantico della Lettera ai Filippesi mostra il doppio movimento di abbassamento estremo e di innalzamento. Dio ha innalzato il suo Cristo, proprio perché si è fatto «obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8). Anche in questi due testi appare una lettura della storia che va al di là dell’apparenza, per scorgervi il disegno di salvezza di Dio. All’inizio della Settimana Santa anche la Chiesa, come ogni credente, è chiamata ad assumere questo stesso sguardo non solo sul racconto della passione di Gesù, ma anche sulla passione che oggi l’umanità attraversa, camminando verso la pienezza del Regno di Dio.

 

14 febbraio
Mercoledì delle Ceneri

Parola di Dio

Gl 2,12-18: Laceratevi il cuore e non le vesti
Sal 50: R. Perdonaci, Signore: abbiamo peccato
2Cor 5,20-6,2: Riconciliatevi con Dio… Ecco ora il momento favorevole
Mt 6,1-6.16-18: Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà

 

Commento

Il tempo di Quaresima inizia con il Mercoledì delle Ceneri, segnato dall’«austero simbolo» con il quale viene cosparso il capo di ogni membro dell’assemblea liturgica. Un simbolo molto forte che rimanda alla fragilità dell’uomo e della donna davanti a Dio. La cenere è una realtà sterile che senza un intervento di Dio non potrà mai diventare luogo di fecondità. Iniziare l’«itinerario spirituale» della Quaresima con questo gesto, significa invocare la forza dello Spirito di Dio perché nasca la vita, dove sembra regnare unicamente la morte. Un cammino che si compirà nel fuoco nuovo e nell’acqua della Veglia pasquale.

La liturgia della Parola di questo giorno è caratterizzata innanzitutto dal brano evangelico tratto dal discorso del monte nel Vangelo di Matteo (Mt 6,1-6.16-18), dove Gesù parla ai suoi discepoli di elemosina, digiuno e preghiera. Nella prima lettura il tema che viene messo in evidenza (Gl 2,12-18) è quello della conversione, del ritorno a Dio, con un particolare riferimento alla pratica del digiuno. Nella seconda lettura (2Cor 5,20-6,2) tratta dalla Seconda Lettera ai Corinzi il tempo di Quaresima che inizia viene riconosciuto come «il tempo favorevole» per la conversione e per il ritorno a Dio per ogni battezzato.

Il brano evangelico è tratto dal discorso del monte nel Vangelo di Matteo e riguarda il tema della giustizia, cioè del compimento della volontà di Dio nella propria vita. Poco prima Gesù ha invitato i suoi discepoli a vivere una «giustizia più grande» (Mt 5,20), rappresentata dalle beatitudini. Un modo di compiere la volontà di Dio che non dipende da una ricompensa da ottenere, ma da un rapporto gratuito con Dio. Ora, nel brano che la liturgia propone nel Vangelo del Mercoledì delle ceneri, si dice che questa giustizia più grande va praticata non «davanti agli uomini», per essere ammirati, ma davanti a Dio (Mt 6,1), «nel segreto» (Mt 6,4.6.18). Vengono quindi elencati tre esempi concreti di come incarnare un tale modo di vivere la volontà di Dio, cioè la giustizia, nella propria vita di fede. Si tratta di tre pratiche fondamentali della religiosità del tempo di Gesù: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Queste tre azioni che vengono considerate altamente meritevoli davanti a Dio possono essere «inquinate» e «avvelenate» dalla possibilità di compierle davanti agli uomini, finendo per essere fatte nella menzogna. Usando l’espressione «nel segreto», Gesù non fa riferimento unicamente ad una umiltà che può diventare anch’essa ipocrita. Egli ci invita a guardare a ciò che viviamo nel segreto come «la verità» di noi stessi e della nostra vita. Ciò che viviamo «nel segreto» è ciò che è autentico, ciò che è vero.

Le tre pratiche dell’elemosina, della preghiera e del digiuno, temi che ritorneranno con insistenza sia nei testi biblici che in quelli eucologici del tempo quaresimale, rimandano alle dimensioni fondamentali della vita umana: il rapporto con gli altri, con Dio e con sé stessi. Si tratta di gesti che ci invitano a «fare spazio». Anzitutto a fare spazio all’altro attraverso l’elemosina. Rinunciare a qualcosa di mio per il mio prossimo, significa riconoscerlo presente nella mia vita. Con la preghiera il credente fa spazio a Dio nella sua esistenza. In fondo si tratta di donare del tempo a Dio, per riconoscerlo presente nella nostra vita e per giudicare se stessi e la propria vita davanti a lui e alla sua Parola. Infine, il digiuno, ci invita a riconoscere noi stessi e la nostra fame più autentica che non consiste unicamente nel cibo materiale, nel rispondere ai nostri bisogni, bensì nel cibo della parola di Dio e nei nostri desideri più profondi. In fondo il Vangelo afferma che tutta la vita umana, in tutte le sue dimensioni, va vissuta «nel segreto» cioè nella verità. Il cammino della Quaresima è un percorso da fare «nel segreto», per riconoscere, sotto l’azione dello Spirito Santo, la verità più profonda di noi stessi.

Il testo del profeta Gioele nella prima lettura è un pressante invito alla conversione incentrato sulla affermazione che Dio è «misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore», secondo la rivelazione degli attributi fondamentali del Dio di Israele di Es 34,6-7. Il centro dell’invito a ritornare a Dio con tutto il cuore e con atti esteriori – digiuni, pianti e lamenti – che esprimono la disposizione di sincerità interiore, non si fonda sul peccato del popolo ma sul volto di Dio che è amore e fedeltà. Nella gelosia di Dio per il suo popolo si rivela il suo amore appassionato. Si tratta di un ulteriore elemento che la liturgia pone all’inizio del cammino quaresimale: un invito a non tenere lo sguardo ripiegato su di sé e sul proprio peccato, bensì su Dio e sulla sua misericordia.

La seconda lettura contiene una espressione tipica della Quaresima: «Ecco ora il tempo favorevole» (2Cor 6,2). Il testo di Paolo è un invito rivolto ai credenti perché si lascino riconciliare con Dio, un’esortazione a cogliere il momento favorevole, il tempo della salvezza. Attraverso la seconda lettura e l’esortazione dell’Apostolo è quindi possibile collegare quanto affermato nelle altre letture bibliche della liturgia del Mercoledì delle Ceneri, all’esistenza concreta dei credenti e della Chiesa, che oggi vivono il tempo della Quaresima come itinerario spirituale che li condurrà «completamente rinnovati» a celebrare la Pasqua del Signore.

18 marzo
V Domenica di Quaresima

Parola di Dio

Ger 31,31-34: Concluderò un’alleanza nuova e non ricorderò più il peccato

Sal 50: R. Crea in me, o Dio, un cuore puro

Eb 5,7-9: Imparò l’obbedienza e divenne causa di salvezza eterna

Gv 12,20-33: Se il chicco di grano caduto in terra muore, produce molto frutto

 

Commento

Nella quinta domenica di Quaresima troviamo il brano evangelico che narra l’episodio di alcuni Greci che volevano vedere Gesù e chiedono la mediazione dei discepoli per poterlo incontrare (Gv 12,20-33), seguito da un discorso di Gesù che sviluppa tematiche legate alla sua Pasqua. Come prima lettura giungiamo al culmine del percorso proposto dal lezionario di Quaresima dell’anno B con l’annuncio di una nuova alleanza nel libro di Geremia (Ger 31,31-34). Il testo della Lettera agli Ebrei che costituisce la seconda lettura può permettere un collegamento tra la nuova alleanza annunciata da Geremia e l’atto sacerdotale di Gesù, realizzatosi con il dono della sua vita in obbedienza al Padre.

Il brano evangelico è tratto dalla conclusione della prima parte del Vangelo di Giovanni (cc. 2-12), che alcuni esegeti chiamano “libro dei segni”, immediatamente prima della seconda parte del Quarto Vangelo che sarà tutta dedicata alla narrazione della passione, morte e risurrezione di Gesù (cc. 13-21), introdotta dal lungo discorso di addio del Maestro rivolto ai suoi discepoli (cc. 13-17). Il passo di Giovanni, scelto dalla liturgia per questa ultima domenica di Quaresima, si apre con una richiesta da parte di «alcuni Greci» (Gv 12,20) di poter vedere Gesù, di poterlo incontrare. La domanda viene posta a uno dei discepoli di Gesù di nome Filippo, il quale coinvolge subito in questa sua missione Andrea. I due discepoli insieme vanno a comunicare a Gesù quanto accaduto. Sembra quasi che ci sia una continuità tra questo testo e l’incontro di Gesù con i suoi primi discepoli all’inizio del Vangelo. Infatti Andrea e Filippo sono menzionati nell’episodio di Gv 1,35-51. Essi dopo aver incontrato Gesù portano ad altri l’annuncio di aver trovato il Messia e colui di cui parlano le Scritture (Gv 1,41.45). C’è quasi un movimento contrario: all’inizio del Vangelo i discepoli portano ad altri, Pietro e Natanaele, l’annuncio di aver incontrato Gesù; ora al termine della prima parte del racconto giovanneo essi portano a Gesù il desiderio di alcuni gentili, simpatizzanti per la fede di Israele, di poterlo incontrare. Sarà il compito dei discepoli di Gesù dalla Pasqua in poi: portare a Gesù tutte le genti.

La reazione di Gesù di fronte a questo annuncio è sorprendente. Egli innanzitutto dichiara che «è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23). Quell’ora già annunciata fin dall’inizio del Vangelo (cf. Gv 2,4), di fronte alla domanda dei Greci di poterlo incontrare, sembra essere giunta. La salvezza che raggiunge ogni uomo e ogni donna nella Pasqua di Gesù, l’evento che permette a tutti i popoli di entrare nell’alleanza con Dio, è il segno che l’ora è arrivata. La domanda dei Greci rivela questo compimento.

Dopo la dichiarazione fondamentale dell’ora, Gesù pronuncia alcuni insegnamenti sul senso della sua Pasqua. Innanzitutto egli riprende l’immagine del seme, applicandolo al dono della sua vita: se il seme muore sottoterra, porta frutto; se non muore, rimane solo (cf. Gv 12,24). Ma questo significato dell’evento pasquale di Gesù come vita donata che porta frutto ha delle conseguenze per l’esistenza dei suoi discepoli: ad immagine di Gesù dovranno imparare che «chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25). Nel Vangelo c’è un esplicito invito alla sequela di Gesù in questa logica di vita, confermato anche dalla voce del Padre, che afferma che nella vita donata del Figlio, il nome del Padre viene glorificato. Il brano si conclude con un riferimento all’innalzamento di Gesù sulla croce, grazie al quale tutti saranno attratti a lui. Un tema che abbiamo già incontrato nella domenica precedente (Gv 3,14-21).

Nella prima lettura troviamo un testo fondamentale: l’annuncio da parte di Geremia di una nuova alleanza. Non si tratta di una alleanza nuova per contenuto, o nuova per destinatari. L’alleanza infatti riguarda sempre la Torah/Legge ed è conclusa con la casa di Giuda e con la casa di Israele. Tuttavia si afferma che non sarà una alleanza come quella stretta all’uscita dell’Egitto. Dove sta allora la novità della nuova alleanza? Il testo di Geremia afferma che la novità riguarderà “il supporto” sul quale la Torah/Legge sarà scritta: il cuore. La novità della nuova alleanza consiste nel fatto di essere scritta nel cuore e stipulata nel perdono del peccato del popolo da parte del Signore Dio. È l’esperienza del perdono che sa trasformare tutto e ridonare un futuro a coloro che, come gli interlocutori di Geremia, pensavano di non avere davanti a sé che un tempo senza speranza e senza gioia.

I discepoli di Gesù riconosceranno nell’espressione “nuova alleanza”, che in tutto l’Antico Testamento compare solo in questo passo di Geremia, una chiave di lettura della Pasqua del loro Signore. La lettera agli Ebrei può infatti affermare che Gesù, grazie alla sua obbedienza, «divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,9). In questo si compie l’atto sacerdotale di Gesù (cf. Eb 5,10), nel suo «pieno abbandono» alla volontà del Padre e nel dono della sua vita, come il chicco di grano che porta molto frutto solo se muore nei solchi della terra. Con questi testi molto ricchi la liturgia ci introduce nel mistero pasquale e nelle celebrazioni della Settimana santa.

11 marzo
IV Domenica di Quaresima

Parola di Dio

2Cr 36,14-16.19-23: Con l’esilio e la liberazione del popolo si manifesta l’ira e la misericordia del Signore
Sal 136: R. Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia
Ef 2, 4-10: Morti per le colpe, siamo stati salvati per grazia
Gv 3,14-21: Dio ha mandato il Figlio perché il mondo si salvi per mezzo di lui

 

Commento

La quarta domenica di Quaresima presenta come brano evangelico un testo giovanneo tratto  dal dialogo tra Gesù e Nicodemo all’inizio del Quarto Vangelo (Gv 3,14-21) che ci introduce in modo molto intenso nella comprensione del mistero pasquale. La prima lettura (2Cr 36,14-16.19-23), continuando la storia dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, fa riferimento all’epoca dell’esilio. La seconda lettura (Ef 2,4-10) collega l’azione premurosa di Dio nei confronti del suo popolo, che emerge nella prima lettura, alla misericordia che si è manifestata in Cristo Gesù.

Il brano del Vangelo di Giovanni in alcuni passaggi fondamentali descrive il senso della missione di Gesù e della sua Pasqua. Non si parla esplicitamente della morte in croce, ma molti elementi del testo fanno indirettamente riferimento al dono della vita e alla morte di Gesù.

Il primo riferimento che incontriamo nel testo scelto dalla liturgia è all’immagine del serpente innalzato da Mosè nel deserto per la guarigione degli Israeliti morsi da serpenti velenosi (cf. Nm 21,4-9). Il verbo “innalzare” può rimandare sia alla morte in croce di Gesù, sia alla sua glorificazione da parte del Padre. Per diverse volte ritorna l’immagine dell’innalzamento del Figlio dell’uomo in Giovanni (Gv 8,28; 12.32.34). Gesù afferma che quando sarà innalzato da terra attirerà tutti a sé (Gv 12,32). Il raduno promesso da Gesù nel momento del suo innalzamento è una immagine che rimanda alla salvezza. Infatti il raduno dei dispersi è l’opera di Dio per i tempi ultimi. Gloria e croce vengono a sovrapporsi: è nel dono della sua vita sulla croce che si rivela la gloria di Gesù.

Il secondo passaggio del brano evangelico (Gv 3,16) afferma in positivo il senso della missione di Gesù, fornendo una ulteriore interpretazione al paragone con il serpente innalzato nel deserto. La missione di Gesù viene legata all’amore del Padre. Si tratta di un amore che non si impossessa dell’amato, ma che dona. È dall’amore infinito di Dio per il mondo che nasce la missione di Gesù e il dono della sua vita in croce, già richiamato dall’immagine del serpente innalzato: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio».

Il terzo passaggio descrive la missione di Gesù in negativo (Gv 3,17-21): egli non è venuto per condannare ma per salvare. La condanna non deriva da una azione voluta da Dio, ma dalla chiusura degli uomini e delle donne all’azione salvifica di Dio che si manifesta nel dono della vita del Figlio. La distinzione avviene nell’accoglienza o meno del Figlio, che è la luce venuta nel mondo. Ma gli uomini, come già il prologo del Quarto Vangelo ricordava (Gv 1,9-11), preferiscono spesso le tenebre alla luce. Gesù con la sua vita e la sua morte illumina la vita umana e smaschera ciò che è nelle tenebre, «chi fa il male» (Gv 3,20).

La prima lettura è tratta dal Secondo Libro delle Cronache, l’ultimo del canone ebraico delle Scritture. I due libri delle Cronache ripercorrono la storia della monarchia e la leggono attraverso un criterio fondamentale: le sorti del popolo dipendono unicamente dalla sua fedeltà all’alleanza, alla legge e alla parola dei profeti.

È quanto alla fine viene affermato esplicitamente nel brano proposto come prima lettura di questa domenica e che costituisce la conclusione di tutta l’opera del Cronista.

Nel Secondo libro delle Cronache il peccato del popolo di Dio sta soprattutto nel suo ostinato non-ascolto della Parola, che il Signore non ha mai fatto mancare tramite i suoi messaggeri inviati «costantemente» e «premurosamente». Anzi si è giunti al punto di «beffare i messaggeri di Dio, disprezzarne le parole, schernire i profeti» (cf. 2Cr 36,16). La situazione del popolo divenne senza rimedio. Davanti a questa situazione, ecco l’ultimo atto di Dio: l’esilio. L’esilio diventa la purificazione necessaria perché il popolo possa ritornare ad ascoltare la voce di Dio. Il fatto che sia stabilito un tempo di settanta anni ci dice che l’ira di Dio, giunta al culmine, non si risolve nella rovina del popolo, ma in un atto estremo per recuperarlo, un atto che si pone quindi in linea con l’ostinazione divina nell’inviare i suoi messaggeri, i profeti per invitare il popolo alla conversione. Il testo si conclude con una apertura al futuro grazie all’opera di liberazione di un sovrano pagano, il re Ciro. L’ultima parola dell’editto del re è particolarmente significativa: «salga!». Il popolo è chiamato a riprendere il cammino di salita a Gerusalemme, per ricominciare la sfida della fedeltà all’alleanza con il suo Dio.

L’invito a salire che conclude la prima lettura può essere rivolto alla Chiesa e ad ogni credente in questo tempo di Quaresima. Dio «ci ha fatto rivivere con Cristo», come richiama la seconda lettura, «per il grande amore con il quale ci ha amato» (Ef 2,4-5). Un dono che diventa impegno a camminare in quelle opere buone che «Dio ha preparato» (cf. Ef 2,10). Il grande amore con il quale Dio ha amato il mondo «da dare» il Figlio e la premura e la costanza con le quali egli ha inviato i suoi profeti, sono il fondamento della vita nuova nella quale i credenti sono invitati a camminare.

4 marzo
III Domenica di Quaresima

Parola di Dio

Es 20, 1-17: La legge fu data per mezzo di Mosè
Sal 18: R. Signore, tu hai parole di vita eterna
1 Cor 1, 22-25: Annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per gli uomini, ma, per coloro che sono chiamati, sapienza di Dio
Gv 2, 13-25: Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere

 

Commento

Con la terza domenica si entra in una seconda fase del cammino quaresimale, il più caratterizzato di ogni ciclo liturgico. Infatti, se le prime due domeniche hanno sempre i brani delle Tentazioni e della Trasfigurazione, secondo i tre evangelisti sinottici, a partire dalla terza domenica ogni ciclo liturgico propone un cammino differente. Prosegue invece il cammino delle prime letture sul tema dell’alleanza.

Nell’anno B la terza domenica è caratterizzata dal brano evangelico della cosiddetta “purificazione del tempio” (Gv 2,13-25) e dalla prima lettura che riporta le Dieci Parole (Es 20,1-17). Nella seconda lettura (1Cor 1,22-25) Paolo indica ai Corinzi la logica alternativa del Vangelo che si rivela in «Cristo crocifisso». Un testo che ci aiuta a leggere in chiave pasquale e cristologica sia il Decalogo e l’alleanza del Sinai, sia l’episodio della purificazione del Tempio, collegando entrambi i testi all’esistenza dei credenti.

Nel Vangelo di Giovanni il brano che tocca il tema del rapporto tra Gesù e il Tempio, a differenza dei Sinottici che lo collocano dopo l’ingresso trionfale in Gerusalemme, viene collocato immediatamente dopo al “prologo narrativo”, all’inizio del racconto giovanneo e del ministero di Gesù. Non si tratta di un fatto casuale, ma indica come questo racconto nel Vangelo di Giovanni occupi un ruolo del tutto particolare.

Molti sono i riferimenti alla Pasqua, che creano un’inclusione tra questo brano programmatico che si colloca all’inizio e i racconti della passione, morte e risurrezione che chiuderanno il Vangelo. Innanzitutto tutto accade durante la festa di Pasqua (Gv 2,13). C’è poi l’intervento dell’Evangelista stesso che sottolinea come le parole pronunciate da Gesù in questa occasione verranno ricordate dai suoi discepoli dopo la sua risurrezione e saranno fondamentali per la fede in lui (cf. Gv 2,22).

Ma il tema fondamentale che unisce l’episodio del Vangelo di questa domenica alla Pasqua di Gesù è l’identificazione del Tempio, come luogo della presenza di Dio e dell’incontro con lui, e il corpo stesso di Gesù (cf. Gv 2,21). Nel prologo di Giovanni si afferma che la Parola «si fece carne (sarx)» (Gv 1,14) e che il Dio che nessuno ha mai visto si è fatto raccontare dal Figlio unigenito (Gv 1,18). Ora nel racconto della “purificazione del Tempio” Giovanni afferma che quando Gesù parla del Tempio si riferisce al suo corpo (soma). Dio si racconta e si manifesta nella carne del Figlio, un corpo che dovrà essere distrutto e riedificato in tre giorni. Ma soprattutto Dio si racconta nella Pasqua di Gesù, nella sua vita donata per la vita degli altri.

Il mercato (cf. Gv 2,16) è il luogo del commercio, del guadagno, dell’interesse. Dio si rivela invece nei gesti di gratuità, di amore e di dono di sé. È nel corpo di Gesù che si manifesta questa logica pasquale nella quale Dio si rivela e si lascia incontrare; è questo il culto che Dio cerca (cf. Gv 4,23).

Nella prima lettura incontriamo il testo fondamentale dell’alleanza sinaitica, le Dieci Parole. Nell’introduzione alle Dieci Parole (Es 20,2) troviamo i tratti fondamentali che ci servono per l’interpretazione del testo. Dio ha suscitato, creato, fatto la libertà di Israele per concludere con lui un’alleanza. Ma ancor prima di stringere l’alleanza con il suo popolo, Dio ha voluto un interlocutore libero e vuole che tale interlocutore rimanga libero. Il Signore vuole che Israele non sia solamente libero dalla schiavitù opprimente degli Egiziani, ma desidera una libertà radicale, vuole sradicare ogni connivenza con la schiavitù, ogni tentazione di preferire la schiavitù alla libertà del suo servizio. Per questo prima di ascoltare la parola del suo Dio Israele deve fare memoria della nascita della sua libertà, che Dio desidera prima di ogni altra cosa.

Ma il Signore non è solamente un Dio liberatore, egli è anche un Dio geloso. La gelosia di Dio è un tratto dell’amore umano che la Bibbia ebraica usa per parlare dell’amore di Dio per il suo popolo. La “gelosia” di Dio, però, non è il frutto di un amore possessivo. Nasce da un amore autentico che non rimane indifferente davanti alle scelte dell’altro. Dio soffre perché, mentre vorrebbe manifestare la sovrabbondanza del suo amore fedele (chesed), è costretto a prender atto che le ferite inflitte dal suo popolo alla sua libertà si trascinano per generazioni (cf. Es 20,5) e non si rimarginano subito, ma occorre tempo.

Nel nostro itinerario della Quaresima questa legge di libertà ci indica un aspetto fondante del nostro rapporto con Dio: la chiamata a liberarci dalle schiavitù, anche da quelle più raffinate e profonde. La Quaresima è il tempo per la guarigione delle ferite alla nostra libertà di figli. Oggi, per noi, l’uomo in relazione libera con Dio, risplende sul volto del Figlio. Egli è il Tempio del nostro incontro con Dio. In Gesù, nella sua vita e nella sua morte per noi, si manifesta quella potenza e sapienza di Dio di cui parla Paolo nella seconda lettura.

25 febbraio
II domenica di Quaresima

Parola di Dio

Gen 22, 1-2. 9. 10-13. 15-18: Il sacrificio del nostro padre Abramo
Sal 115: R. Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi
Rm 8, 31-34: Dio non ha risparmiato il proprio Figlio
Mc 9, 2-10: Questi è il Figlio mio, l’amato

 

Commento

La seconda domenica di Quaresima dell’anno B è caratterizzata principalmente dal racconto della Trasfigurazione secondo Marco (Mc 9,2-10) e dall’episodio del libro della Genesi riguardante il sacrificio di Isacco e il rinnovamento della promessa di Dio ad Abramo (Gen 22,1-2.9.10-13.15-18). La seconda lettura, tratta dalla Lettera ai Romani (Rm 8,31-34), ci spinge alla lettura cristologica della vicenda del patriarca Abramo e del figlio Isacco. Anche Dio infatti «non ha risparmiato il proprio Figlio».

Il racconto della Trasfigurazione di Gesù sul monte con la presenza di tre testimoni prescelti, Pietro, Giacomo e Giovanni, caratterizza in ogni ciclo liturgico la seconda domenica di Quaresima ed è legato all’episodio della prova nel deserto che invece troviamo nella prima domenica. Si tratta di due facce della stessa medaglia: da una parte la lotta contro il male, che si oppone alla vita umana piena, dall’altra la trasfigurazione della vita umana nella luce di Dio che deriva dall’adesione alla volontà del Padre.

Nel Vangelo di Marco la Trasfigurazione si colloca in un contesto di tensione e di opposizione. Gesù nel suo cammino incontra l’opposizione dei suoi contemporanei, deve affrontare impegnative dispute con molti interlocutori religiosi del suo tempo, sperimenta la radicale incomprensione e cecità dei suoi discepoli ed è costretto ripetutamente a ribadire le condizioni della sequela e il senso del suo ministero. Basta pensare all’episodio di Cesarea di Filippo, quando, alla confessione di fede di Pietro, segue l’incapacità del discepolo a comprendere la strada del maestro. In questo contesto di contrapposizione, che allude alla futura passione e morte, si colloca l’episodio della Trasfigurazione, che lascia intravedere la gloria della risurrezione. Le vesti candide creano un legame tra l’episodio che avviene sul monte della gloria e l’apparizione di un giovane «vestito d’una veste bianca» (Mc 16,5) la mattina del primo giorno dopo il sabato.

L’episodio della Trasfigurazione mostra come la vita e la gloria possano manifestarsi anche in un contesto di opposizione e di morte, di lotta e di fatica. Perché la gloria si manifesti occorre l’ascolto della Parola di Dio che è stata comunicata tramite Elia e Mosè, che conversano con Gesù. Essi sono certo immagine della Legge e dei profeti, ma anche coloro che nella tradizione ebraica già vivono in Dio e nella comunione con lui. Ora questo ascolto continua nella parola di Gesù. Infatti la voce dal cielo invita ad ascoltare lui: «ascoltatelo!». Si tratta di un elemento molto importante. Ora la Parola di Dio si ascolta nella voce del Figlio «amato». Un elemento ulteriore che esprime la relazione unica del Padre con Gesù e di Gesù con i suoi discepoli.

Nella prima lettura troviamo una seconda tappa del cammino di alleanza di Dio con il suo popolo e con l’umanità intera. Nel caso di Abramo, di alleanza si parla in Gen 17 (cf. Gen 17,2), tuttavia anche in questo episodio del sacrifico di Isacco il Signore rinnova la sua promessa al Patriarca.

Un giorno ormai lontano Abramo aveva sentito la parola del Signore, una parola misteriosa, una voce sconosciuta, che gli diceva di andare (Gen 12,1): «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò». Per Abramo si trattava di lasciare tutto il suo passato, i suoi parenti, la casa di suo padre. Ora, nell’episodio del sacrificio di Isacco, proprio quando sembra manifestarsi un timido segno di realizzazione della promessa, ad Abramo viene chiesto di lasciare anche il proprio futuro.

È la vocazione dell’uomo che Dio ha pensato alle origini: la richiesta di Dio che Adamo rifiutò cercando di possedere, di prendere (Gen 3,6) la creazione e i suoi frutti non come dono di Dio, ma come suo possesso. Abramo guarda ciò che ha ricevuto dalle mani di Dio come un dono di cui egli non è padrone. Abramo fa la parola del Signore  (cf. Gen 22,16) e per questo la sua prima chiamata si realizza e il suo futuro diviene realmente benedizione. La vita dell’uomo diventa benedizione quando sa entrare nella logica del dono, allora Dio vede e si lascia vedere. È su quel monte che il Signore si lascia vedere, perché un uomo ha accolto la logica del dono.

Su un altro monte la logica del dono è stata accolta, il monte della croce, dove Gesù dona la sua vita con amore e dove Dio stesso si dona nel suo prediletto/unico Figlio, e anche quel dono diventerà benedizione e alleanza per una moltitudine di figli condotti alla gloria, che oggi su un altro monte, quello della Trasfigurazione, già risplende! L’espressione «Figlio amato» crea un significativo legame tra il brano evangelico (Mc 9,7) e la prima lettura (Gen 22,2), uniche due ricorrenze in tutta la Scrittura. Il brano della Lettera ai Romani può portare ad esplicitare questo collegamento e a legarlo alla vita dei credenti in quanto si parla di Dio che «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi». Si entra così ancora più profondamente nel tema pasquale che verrà ripreso e approfondito nelle domeniche successive.